Lucera, in ricordo di Peppino Papa
Grande sindacalista, uno dei sindaci di Lucera più amati. Forza, cuore e intelligenza
Peppino Papa ci ha lasciati 10 anni fa. Era il 7 agosto 2010. Era nato a Motta Montecorvino il 7 ottobre 1920. Fu segretario della Camera del Lavoro di Lucera nel 1944. Militò nel Partito Comunista Italiano. Fu sindaco di Lucera per 12 anni, dal 1956 al 1960 e dal 1963 al 1967. Successivamente, fu eletto nel consiglio della Regione Puglia. (la foto a corredo dell’articolo è tratta da “Lucera in particolare”, libro fotografico di Giuseppe Sambero con commenti di Giuseppe Trincucci. Quello che segue è il mio ricordo di Peppino Papa.
Peppino Papa non era riuscito subito a ‘masticare’ il mio cognome montanaro e la prima volta lo trasformò in ‘Malaguerra’. Poi ci conoscemmo meglio. Mi raccontò di come era riuscito a fare grande il movimento sindacale in provincia di Foggia. Degli spari sui manifestanti. Di repressioni violente, pallottole vaganti e carceri per lui e le compagne e i compagni che lottavano per il pane, contro miseria e ignoranza, per affrancare i braccianti da una vita di sfruttamento e di stenti. Aveva capito prima degli altri che per cambiare le cose, cambiarle veramente, come fece, nel prontuario della rivoluzione non potevano mancare abbecedario, libro e quaderno. E allora andava per paesi, villaggi e campagne ad aiutare chi voleva imparare a leggere e a scrivere. La sua storia continua a insegnare, a scandire come abbecedario le lettere di Forza, Giustizia, Valore e Libertà. Sono zolle di terra, materia vivente, non parole. Eccole.
“Ho contribuito alla trasformazione della società da agricola e pastorale in una aperta allo sviluppo attraverso l’edilizia e le fabbriche”, scrive Giuseppe Papa a pagina 238 di un meraviglioso libro dato alle stampe qualche anno fa dalla Cgil.
“Io, da conduttore di gregge, sono diventato dirigente sindacale locale, provinciale e regionale e trascinatore di popolo. Sono stato anche dirigente nazionale delle autonomie locali”.
“Sono nato a Motta Montecorvino il 27 ottobre 1920 da padre pastore e mamma contadina e ho vissuto nella masseria Labella a Lucera. Ho frequentato la scuola elementare fino alla quinta con ottimo profitto. Fino all’età di tredici-quattordici anni ho fatto il pastore e ho effettuato anche la transumanza, nel tratturo da Lucera a Foggia Celano (…)”
“La mattina mi alzavo alle tre e svolgevo il servizio di pulizia delle stalle e portavo l’acqua necessaria dal pozzo alla stalla. Il nostro cibo era il pancotto, cioè il pane bagnato nell’acqua e sale. Nei mesi estivi le pecore producevano latte e ricavavamo formaggi e ricotte che aggiungevamo al cibo (…)”
“In questo periodo non si può parlare di vita normale, per un ragazzo: era una vita senza giochi, nella povertà, nel sacrificio, nel lavoro duro. LA SERA LEGGEVO ALLA LUCE DEL LUME A OLIO le dispense di una scuola per corrispondenza di Roma E RILEGGEVO I QUADERNI DELLA QUINTA ELEMENTARE. QUESTA MIA ATTIVITA’ CULTURALE FACEVA INQUIETARE IL PADRONE e quindi decisi di non fare più il pastore. Mi ricordo comunque che ho pascolato anche i tacchini che dovevano attraversare il torrente e spesso erano grassi e non ce la facevano. Quelli che affogavano venivano spennati e preparati, cioè il padrone non diceva “mangiateli” ma “preparateli”. Da questo fatto è nato nella mia mente un forte spirito di classe che non mi ha mai più abbandonato. ECCO DA DOVE SONO PARTITO. Sono diventato bracciante, ma non ho continuato a studiare anche se il professore Coccia diceva che dovevo farlo. Ho continuato a lavorare nella stessa masseria, ma maturava in me una rabbia che era nata dal fatto dei tacchini e dall’impossibilità di poter studiare; per esempio, non ho potuto fare il Corso di allievi sottufficiali dell’Aeronautica, cosa che mi sarebbe piaciuta molto. Quindi sono stato – come dicevo – pastore, buttero, bracciante aratore ed infine ‘formatore’, cioè tecnico che tracciava i solchi per poi seminare. Io sono stato uno dei primi a tracciare i solchi per fare entrare le seminatrici, ed ero tra i più bravi”.
“Nel ’39 sono entrato in Aeronautica, ed ho fatto il paracadutista, e poi l’istruttore paracadutista. L’8 settembre ero a Roma, il mio battaglione era stato diviso: chi stava con i tedeschi, e chi contro. Sono stato costretto a scappare. Nel ’44 sono tornato a Mola di Bari con il battaglione Arditi dell’Aeronautica e dovevamo andare a Cassino, ma non ci sono mai arrivato, perché il re venne a farci visita e mi fece dare quindici giorni di permesso, avendo saputo che ero di Lucera. Dopo un poco, alla fine del ’44, uscì un decreto che potevamo restare a casa per un mese. In quel periodo ho fatto lo spaccapietre nelle strade e in seguito tornai alla masseria, ma intanto facevo attività nel partito, e mentre stavo nel tratturo arrivò uno in bicicletta e mi disse che le Leghe delle Camere del Lavoro mi avevano eletto segretario. Devo dire anche che i precedenti segretari non duravano molto, perché i lavoratori se non vedevano accolte le loro richieste li cacciavano”.
“In quel momento lasciai il carretto al curatolo e lo salutai. Da allora iniziai la mia attività sindacale, anche se avevo già esperienza nel partito, come ‘capocellula’. Feci il mio primo comizio un 1° maggio, ed avevo una grande paura perché non avevo mai parlato alla folla. C’erano i lavori di bonifica delle terre, che si facevano manualmente, con le pale e i sacchi per portare via la terra, ed io sanai una situazione: non c’erano lavoratori di Foggia che volevano fare la bonifica ed allora io organizzai due camion e rimorchio con lavoratori di Lecce, e intanto facevo proselitismo sindacale”.
“La lotta si spostava da Lucera a Foggia. C’era una cooperativa socialista che costruiva la fognatura, che non voleva pagare, ed io andai dal prefetto e dal questore minacciando uno sciopero ed avemmo i soldi. Questo mi procurò dei fastidi e botte; mi hanno anche arrestato, era il 14 giugno ’49. La cosa tremenda, che mi fece capire che non c’era la coscienza sindacale, fu la fornace sotto il castello di Lucera in cui io costituii il Consiglio di fabbrica. La mattina dopo trovammo 150 lavoratori licenziati e il responsabile era il capofabbrica e dirigente sindacale. Poi andai nel settore dei braccianti e imparai i problemi delle fabbriche di cui non avevo grande esperienza. I salariati non avevano contratto di lavoro e sviluppai il Sindacato su quest’aspetto, garantendo il salario ai lavoratori. Quando i lavoratori fecero cadere il sindaco, e minacciarono di rompere le strade, fui denunciato e incarcerato. Quando uscii (eravamo più di 500, insieme a molti dirigenti sindacali) ero già segnalato. Nel ’51-52 per far tacere le proteste, dettero le terre a mlti dirigenti comunisti, ma questo non fermò la lotta. Mi ricordo anche l’episodio di Portella della Ginestra: eravamo in piena lotta e immediatamente andammo in piazza Duomo dove feci un comizio non autorizzato contro la formazione politica nota come’ L’uomo Qualunque’ e mentre parlavo la folla voleva assaltare la sezione che venne poi bruciata”
“QUESTA E’ STATA LA MIA LOTTA, E SPERO CHE SIA SERVITA A QUALCHE COSA: HO IMPARATO CHE SE SI VUOLE UNA COSA BISOGNA PRENDERSELA, SE NO, NON TE LA DANNO MAI”.
a cura di Francesco Quitadamo