Orsara di Puglia non è un paese come gli altri. Non lo è per il “dove”. Orsara è un paese di confine. Fino al 1884 si chiamava Orsara Dauno Irpina e, prima del 1929, dal punto di vista amministrativo era considerato parte della provincia di Avellino. Non lo è per il “quando”. Orsara di Puglia ha un rapporto felice con il tempo. E’ una delle cinque Cittaslow della Puglia, “i luoghi del buon vivere”, quei posti dove l’agricoltura e il sedere a tavola sono una cosa seria, e gustosa, ricca di una biodiversità caleidoscopica. Orsara di Puglia non è un paese come gli altri: qui, prima che in molte altre parti d’Italia compreso l’evoluto Nord, i cittadini hanno fatto loro e tramandato il valore della libertà, animando una delle più importanti comunità valdesi della Puglia, dando asilo e natali a briganti e partigiani, votando in massa e in stragrande maggioranza per ammainare la bandiera della monarchia e issare quella della Repubblica. Orsara è stata sempre capace di guardare un passo avanti rispetto al resto della provincia di Foggia, oltre il proprio orizzonte, a scavalcare quel confine che è sempre stato un’apertura. Non era ancora nata Slow Food, e in questo paesino già si riscoprivano i vitigni autoctoni, si organizzava una delle Feste del Vino più longeve del Mezzogiorno, si valorizzava con orgoglio la grande cultura contadina. Non era ancora scoppiata la mania del jazz, e in Largo San Michele per l’Orsara Musica Jazz Festival arrivavano da ogni parte del pianeta, suonavano per strada, facevano di un borgo sperduto il centro di un universo di note in libertà.
Ecco, Peppe Zullo rispecchia in toto il genius loci di Orsara di Puglia. Peppe rompe gli schemi, come un fantasista si prende la libertà di reinventare il gioco e creare un mondo nuovo. E’ quello che ha fatto tornando a Orsara dopo aver vissuto e lavorato in Messico e Stati Uniti. Fotografo, meccanico, musicista, cuoco, “uomo dal multiforme ingegno”, Peppe Zullo negli anni ‘80 è tornato a Orsara per reinventarla, facendone un centro quando il paese era l’ultima delle periferie. Ha saputo guardare avanti, lontano e, nell’epoca dei paninari e del fast food, ha puntato tutto sull’orto dei sapori perduti, il bosco delle erbe spontanee riscoperte, il cibo tanto semplice da esprimere una complessità di genio e di gusto da leccarsi i baffi anche per chi non li ha.
Tornando a Orsara, questo è un paese che mette l’appetito per la scoperta, l’inconsueto, la tradizione tradita per essere rivitalizzata, le mani delle contadine, la fotografia che qui ha tanti amanti, l’architettura degli archi e dei confini, la storia e il futuro. Orsara di Puglia è una sera d’autunno a parlare col sindaco che ha occhi chiari e cervello fino; con l’architetto che si è inventato una delle cantine più spettacolari del mondo, una cantina-paese, con piazze e slarghi, strade e monumenti; con il Sarto (si, il Sarto con la S maiuscola, non lo stilista) che ha vestito e veste i Presidenti; con la Suora che si è inventata un angolo di Paradiso per i bambini; con la statua del Santo Guerriero, l’Arcangelo Michele, patrono con le ali, icona eternamente popular, leggiadra, leggera, perfettamente rispondente alle sei lezioni americane di Italo Calvino. Orsara di Puglia non è un paese come gli altri. Orsara è Orsara, come Peppe Zullo è Peppe Zullo. Non ce n’è in giro, non ne trovi. Perché qui ci son stati gli orsi, ci sono le querce, le api prosperano e sono la fortuna delle mele limoncelle, di questi frutti succosi, piccoli, pieni di un gusto che non conoscevi prima di addentarlo curioso, divertito, inebriato del profumo tutto intorno. Con quell’aroma di caminetti accesi e di rucola, di pane cotto nel forno a paglia, di cacio-ricotta sapido e lindo, di vino rosso che arriva al cuore e colora le gote di un sorriso che sorge come vino da botti di legno profumato. Orsara e Peppe Zullo non sono come gli altri. Sono tra le cose che bisogna conoscere, frequentare, sperimentare, perché la vita è fare esperienza dell’unicità, per comprendere che sono le differenze, solo quelle, che danno il tono ai sensi, facendoli vibrare come xilofoni.
di Francesco Quitadamo